L’uomo e la macchina

Per esser grande l’uom creò la macchina,
e la rese perfetta in ogni ordigno.
    Nervi d’acciaio le donò; ed in vero
    parve ad essa donare anche il pensiero.

Ingranaggi, stantuffi, anse, cilindri,
tutto in essa ebbe schiavo al suo dominio:
    quand’egli volle e comandò, il motore
    batté col soffio d’un possente cuore.

E la macchina fu pari a una femmina
bella asservita a lui da un incantesimo.
    Ogni sua grazia occulta, ogni suo segno
    palese, ogni finezza di congegno

gli appartenne, fu carne e sangue e palpito
d’amante amata in pena ed in delizia:
    tutto di lei scrutò, strinse, plasmò,
    distrusse, ricostrusse, idoleggiò.

Sotto una tenda, avvolto in un cinereo
lucco d’artiere, fra strumenti e cinghie,
    dì e notte visse, in veglia intenta e cruda
    a fianco della sua macchina ignuda.

Scordò per essa le dolcezze semplici
della vita mortale, i cieli e l’acque,
    il desco bianco ove si frange un pane
    di pace e il cerchio delle cure umane.

L’erba scordò che dice all’uomo: «Stenditi
sulla freschezza mia, sogna, ristòrati»:
    — il sol che gonfia i germi e arrossa i tralci
    e fra le spighe il lampo delle falci.

E tanto l’adorò ch’ella terribile
ne divenne, suo gaudio e sua superbia,
    idol d’acciaio fino ai denti armato,
    a conquiste implacabili creato.

E un dì ch’ei ne seguia, scosso da fremiti
d’orgoglio, il gioco delle ferree vertebre,
    ratta il ghermì, sé del suo sangue intrise,
    più bella al sol perfidamente rise.

Tratta dalla raccolta: 
Dal profondo
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